Bianco Natal, vo a vomitar…

Da ascoltare con in sottofondo “I like Chopin” di Gazebo.

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Il mio lavoro mi piace, mi piace molto, no ‘l niego, mi permette di conoscere gente, persone, luoghi, cose, case, libri, auto, viaggi, fogli di giornale, e via così; l’esperienza dell’altra sera però in tutta sincerità mi ha particolarmente colpito. E non per aver mangiato in modo clamorosamente disgustoso (saranno vent’anni che non mangiavo così male a un evento, ma male), ma quanto per essere ritornato negli anni ’80 in poco più di un istante, come se avessi valicato uno stargate e non me ne fossi accorto.

Una delle tante cene aziendali (evito i dettagli, non servono, non aggiungono nulla), ci comunicano il luogo, luogo che io conoscevo per essere presente nella nostra realtà da quasi sessant’anni, ma ignoravo sinceramente che all’interno della struttura stessa ci fosse un ristorante, oh beh, nessun problema.

Arriviamo a montare, come s’usa dire, l’impianto, strumenti e tutto il resto e una volta valicato l’ingresso mi rendo conto che già mi sembrava di essere sul set del film “Vacanze di Natale”, il primo episodio, senza se e senza ma: non vedevo certi arredi né tantomeno certi dettagli (veramente!) da quando ho iniziato questo lavoro, come l’appendiabiti in legno tipo baita di montagna sopra Courmayeur, i segnaposto con su scritto “riservato” in plexiglas colorato, verde o blé, veramente una chicca di quelle storiche; mancavano i posacenere in metallo della Yoga, anzi no, della Massalombarda sui tavoli e il dispenser dei tovagliolini dei gelati Stocchi.

Mi aspettavo sinceramente che a un certo punto uscisse Calogero Calà detto Jerry cantando “Maracaibo mare forza nove” alla guida di una conga scatenata, con i milanès, i torpigna e i romani di Roma nord a salire al piano di sopra a svegliare gli ospiti dei quali vi parlerò più avanti.

In un muro c’era addirittura ancora una presa di corrente di quelle che la BTicino aveva chiamato “Magic” (erano un tentativo di creazione di un nuovo standard che faceva leva sulla sicurezza anche e soprattutto a prova di bimbo): parliamo veramente della prima metà degli anni ‘80. Le aveva in casa il mio collega, prese che fece togliere all’incirca nell’86. Il titolare di questa perlomeno discutibile struttura era ed è quanto di più remoto possa essere attinente alla gestione di un locale aperto al pubblico, ma dopo tutto lo capisco: quando fai questo mestiere per quasi cinquant’anni è fisiologico che ti stia sul cazzo tutto il Creato e che la tua misantropia raggiunga livelli non misurabili nemmeno dall’Istituto dei Pesi e delle Misure, ma a un certo punto molla il colpo e vattene. Sulla bieca codardia di quest’ultimo poi parlerò più avanti, ma andiamo oltre: brigata di sala costituita da due cameriere, una finto/simpatica assolutamente e decisamente indigena, ma in realtà maleducata e scontrosa come la merda, l’altra decisamente con un più basso profilo, una ragazza dell’Est Europa assai più educata (mentre stavamo ricaricando in auto impianto e strumenti – gli ospiti erano andati via da almeno mezz’ora – chiaramente non riuscivamo a chiudere le porte avendo entrambe le mani impegnate, pur cercando di fare prima possibile. Questa ragade, pensando che non la sentissimo ci apostrofa ad alta voce con “Ma guarda tu ‘sti finocchi, la porta…”, peccato in quel preciso istante collega rientrasse e, colpo di classe, se n’uscisse con un: “Grazie, eh!”, al che la merdosa, avendo pestato una sua simile se n’uscisse con dire (e fare) da geco: “Ah no, ma io dicevo gli ospiti di prima”, ma dai, ‘sta punta di cazzo: io invece pensavo che parlassi di quella infelice di tua madre capace di compiere l’errore primo d’averti messa al mondo, anvédi alle volte.

Ma andiamo col menù, degno del miglior Cerea, ma che dico, Alajmo (due nomi a caso): maestoso e ricco aperitivo consistente in noccioline, patatine, Yonkers (un grande classico) e i Cheesy Poofz di Cartman come nemmeno al dopolavoro ferroviario di Indicatore. Da bere, ovviamente, due cartoni di Dom Pérignon fatto col bicarbonato. In Gastroenterologia sta già diventando argomento di studio per la prossima pubblicazione su The Lancet.

Come antipasto l’unica cosa che strappa un cinque di stima, dato da ‘l capocollo, la coppa di testa, la torta ‘nchi cìcc’li (una simpatica focaccia umbra con i ciccioli di majale, una cosa macrobiotica), una caciotta indefinita (quelle che anche al Lidl te le vendono sottobanco) e un gorgonzega® (gorgonzola una sega, citando un mio ottimo amico) con le pregiate confetture delle vaschette Hero che te le danno o all’ospedale o negli alberghi del medesimo livello tipo chessò, pensione Miramonti a Marotta.

Menzione d’onore per il coccetto caldo di polenta col sugo, sugo sospetto schivato come il pericoloso bombardamento di uno stormo di piccioni incazzati che ti ha scambiato per l’assessore all’ecologia. La polenta omnia vincit, come l’amor, riempie, costa poco e fa tanto baita di montagna, ariècco Jerry Calà con la conga, spostatevi un attimo, così poi posso andare avanti.

Ma ora basta cazzate, ecco ‘l cimento, disse Orfeo di fronte alle porte di Dite, ecco il primo primo: i tortellini in brodo. Spendo più di due parole, che volete, son fatto così: vi ricordate quando arrivarono in Italia i primi discount? Lasciate perdere Aldi, Lidl e compagnia bella: i primissimi discount sembravano usciti dal telefilm “Amerika”, con i cartoni buttati là, due commessi, luci fredde al neon e quell’atmosfera che nemmeno Bioshock, t’aspettavi uscisse a momenti un ricombinante. Bene: sul piatto c’erano quei tortellini, quelli che acquistavi al Sosty (il primo discount che arrivò a Perugia, e la marca, falsa come una banconota da due euro e mezzo, fintamente artigianale, hipster ante litteram, il marchio dicevo era Mastro Leandro, ribadisco falso come Giuda). Com’erano ‘sti cosi ripieni? In primis, tutti clamorosamente uguali, con la pasta sottile e stracotta, d’un bianco livido che sapeva di trapasso repentino e il ripieno, c’era sì il ripieno, ma poteva essere di carne, prosciutto, ricotta e spinaci, morte, pregiudizi, ‘sti poveri tortellini disperati cotti, ma che dico, scotti che avrebbero fatto la gioia di Jabba Desilijic Tiure, in un brodo di carne indefinita, scialacquito (suona bene ‘st’anacoluto, o neologismo? Boh) eppur rabbioso di sale, di un trasparente la cui immagine riflette su un discorso che non smette. Ne abbiamo mangiati forse quattro a testa, coprendoli con abbondante formaggio grattugiato (Parmigiano Reggiano? Grana Padano? Pamigo Bayernland? Al NAS l’ardua sentenza).

Il secondo primo! Immancabili in queste terre: ovviamente “I tajatelli“, in italiano le tagliatelle al sugo di carne (a proposito del sugo di carne ebbe a dirmi il figlio di un ristoratore storico – che non c’è più – delle mie parti: “Non chiamarlo ragù: il ragù è un’altra cosa”, lui che faceva un ragù che era celestiale ma si scherniva perché – diceva lui – solo i bolognesi lo sanno fare, noi facciamo il sugo di carne), piatto che ho accuratamente evitato, memore del sugo di carne di certi ristoratori canaglia che ci mettono Dio solo sa cosa dentro.

Ovviamente, che cazzo te ‘l dico a fa’, lo secondo, l’immancabile ròsbiffe®, o qualcosa di simile a fette, con erba (di casa mia) e patate al forno. Evitato anche quello, grazie, sto ‘na crema così, te pare e che te pare.

I vini, dimenticavo: due basi, bianco e rosso di una cantina vicina. Senza infamia e senza lode, ma tanto poco sarebbe cambiato.

I dolci, il carrello dei dolci, e che non chiudiamo toda joia toda beleza, il tripudio, il trionfo, ullallà, me cojoni, evvualà® il panettone di chissà quale forno (crematorio) a chiudere e, incredibilmente, come nei peggiori film che celano almeno una scena presentabile, un caffè più che decente e addirittura l’amaro Nonino oltre all’immancabile fiasco di limoncello fatto in casa, de chi ‘n se sa, limoncello a base di metanolo ma sicuramente ‘o metanolo ‘e Surriento che ispirò il grande Lucio Dalla: “Qui dove il mare luccica e tira forte il vento, con questa intossicazione co’ ‘o metanolo de Surriento”.

Veniamo al titolare tanghero che non ha nemmeno avuto il coraggio di dire a noi nulla in merito al volume “perché di sopra ci sono le camere, chiaro?! Chiamo la SIAE!” al che m’è scappata comprensibilmente una risata, perché c’entrava come i cavoli all’Eucaristia, come se la SIAE ci multasse per il volume alto, geniale, mo’ je dàmo pure questa e siamo a posto. L’organizzatore della festa, un nostro ottimo e spassoso amico che ci diceva: “Alzate! Alzate il volume!” con ‘st’ometto unto, mezzo pelato e col baffetto da piglianculo d’ordinanza che ci ronzava intorno come un tafano fa col culo dei purosangue rendeva il tutto più complicato ma senz’altro più divertente. Di non trascurabile rilevanza il fatto che questo paramecio coi baffi non aveva detto nulla al committente proprio per non perdere il banchetto (e durante l’anno pranzi e cene organizzate proprio dal suddetto committente – nostro amico – in quel cassonetto indifferenziato o sedicente ristorante s’erano sprecate, alla faccia della gratitudine o dell’intelligenza, doti certo assenti in quel tapino)

Importante: le camere al piano di sopra (così vi do un indizio che restringe clamorosamente il cerchio, ma non scriverò il nome direttamente nemmeno sotto tortura) non è che fossero occupate da famiglie, turisti, agenti di commercio o cos’altro, ma da coppie “illecite” o peggio ancora “immorali” insomma, degli sporcaccioni dediti al gran sesso ai quali probabilmente Vasco Rossi turbava l’agone del talamo, ma io credo anche no. Se io me ne sto al piano di sopra con un’occasionale ospite non esattamente a fare rebvs e crucibérva ci può essere persino la remotissima possibilità che m’importi una sega (absit iniuria verbis) del baccano al piano di sotto. Tra l’altro, a chiudere, la brigata che allietavamo era spassosamente caciarona, com’è legittimo che fosse ma niente di chissà quanto insopportabile.

I’m dreamin’ of a white Christmas…

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