Un nuovo verismo, più sangue e merda però.

Se mai ci sia stato un periodo divertente delle lezioni di italiano, quello è legato indissolubilmente alla corrente letteraria del verismo: per quel che mi riguarda non c’è nulla di peggio, di più sopravvalutato, di più disgustoso del verismo. Secchiate, tir, transatlantici colmi di merda, termine onnicomprensivo che racchiude in sé sventura, eventi nefasti, funesti e di destini tristi manifesti. Se qualcosa poteva andar male nei libri degli autori veristi questo andava peggio, una catastrofe insormontabile, morti, feriti, situazioni economiche da suicidi, un bagno di sangue granguignolesco, un verificarsi continuo di eventi terrificanti e giù a battersi il petto o clemente, o pia, piglialo ‘n culo e portal’ via.

Persino Luigi Pirandello, partito dal verismo (se ben ricordo) trova una luce di speranza in una novella come “Ciàula scopre la luna”, Pirandello, l’autore di capolavori come “Il fu Mattia Pascal”, “L’uomo dal fiore in bocca” e via così. L’autore girgentano ha quindi ben poco a che spartire con l’ennesimo figlio della raggiante Catania, che tanto ha dato all’arti, lo scrittore di tomi poderosissimi come “Storia di una capinera”, la storia di una monaca in crisi di vocazione (così si dice?) che però nulla, resta monaca e sofferente o “Mastro Don Gesualdo” un cafone arricchito schifato da ricchi e poveri (sarà perché ti odio?) appartenenti tutti al ciclo dei vinti, degli sconfitti dalla vita, legnate sui coglioni fonte di ispirazione motivazionale al suicidio.

Il mio sogno però era un altro: parodiare il capolavoro del Verga. Sì, quel libro lì. Ora, a me ‘sto cognome m’ha sempre fatto sorridere perché Salvatore Verga era un amico di famiglia siciliano di mio padre, guardiacaccia – quarant’anni fa c’erano i guardiacaccia – e con noi bambini era sempre con un sorriso e una finta burberia (se mai si possa dire così). Pertanto abbinare questo cognome a quel mattone cupo come I Malavoglia m’ha sempre suonato strano, bizzarro.

Quando a scuola la professoressa Giovanna Manca (sarda come me, che porto nel cuore, mente geniale e assai rimpianta, se riesco ancora a mettere due parole di senso compiuto in fila e a dar loro un pur primitivo significato lo devo anche a lei) ci fece conoscere ‘sto masso rimasi di sasso: capisco, è un romanzo, e l’importanza del verismo qui, e le corrispondenti correnti artistiche lì, e il periodo storico, e via così. Sta di fatto che ‘sto Padron ‘Ntoni, il giovane ‘Ntoni, la Longa, la Locca, Brasi Cipolla mi sembrava un teatrino di disperati di fattura unica. L’arma della parodia mi sembrava l’unica difesa, pertanto.

Ora, nel 1992 scopro il fogliaccio livornese che risponde al nome de Il Vernacoliere e lì vi scoprii una tra le penne più geniali in Italia e non solo, vale a dire il Maestro Federico Maria Sardelli: individuo semplicemente geniale, un artista follemente completo, solo per citare qualcosa direttore d’orchestra (eccellente flautista), il vivaldiano più importante d’Europa, candidato a due Grammy Award per la musica sinfonica nel 1997 e nel 2000, pittore (anche acquafortista, se la memoria non m’inganna), autore e vignettista, colonna portante di un Vernacoliere molto cambiato e che ora non seguo più.
Federico Maria Sardelli è anche autore di diversi libri, ora seri, serissimi (il suo “L’affare Vivaldi” edito da Sellerio Editore è davvero notevole) ora leggeri (lui direbbe “cretini” sminuendone la potenza, la qualità, l’estro) come i suoi libri sulle “Proesie”, poesie surreali e ovviamente esilaranti e (ecco l’oggetto del contendere) il suo tomo che più m’interessa, ossia “Il libro Cuore (forse)”, strepitosa parodia senza pari del romanzo “Cuore” di Edmondo de Amicis, quest’ultimo stucchevole libello colmo oltre ogni misura di buoni sentimenti, roba da diabete fulminante.

Ecco, il mio sogno era questo: parodiare fotogramma per fotogramma, azione per azione o come si dice al cinema fare un remake shot-for-shot in chiave totalmente parodistica de “I Malavoglia” e intitolarlo poderosamente “I Mmerda”, con la doppia M, a denotare quanta sventura ci potessero avere ‘sta famiglia che io avrei ribattezzato i Molisano, proprio perché il Molis’nt.

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