Ciao Maestro.

Once upon a time ero un musicista e suonavo spesso, molto spesso, in una struttura importante, nota anche per la cucina (fatto salvo proprio per un bruciapadelle incrociato in quel periodo dove nacque questa splendida pasta, una persona miserabile, arrogante e presuntuosa come non ne ho mai incontrato in trent’anni di onorato lavoro, tra l’altro un cazzone imperiale ai fornelli, con manie di persecuzione oltre il patologico).
Capitava che a fine turno, il sous chef, una brava persona, di quelli che con la fortuna non c’è mai andata a braccetto, inventava una pasta per coloro che rimanevano più tardi, contravvenendo alle disposizioni della Direzione, ma facendoci più che contenti. Ciò che avanzava diventava condimento per la pasta. Questa però è entrata sgomitando nella Storia delle paste ignoranti sì, ma memorabili. Ho voluto trascriverla fedelmente: mi ricorderete, ma vi sconsiglio di mangiarla a cena e di andare subito a letto: non è fatta per questo.

Pasta del Maestro

A persona:

  • 4 scalogni
  • 1 bustina di zucchero (preferibilmente di canna)
  • 75 g ciauscolo
  • 75 g olive nere denocciolate 
  • 125 g pomodori datterini
  • 8 capperi in salamoja
  • 125 g di pasta a scelta (corta sarebbe meglio)
  • sale e pepe q.b.

Soffriggere lo scalogno tagliato finemente in poco burro E olio (pochi, ma entrambi: scalogno chiama sia burro che olio, c’è poco da fare, e questo avrebbe fatto la gioia del bruciapadelle di cui sopra, ‘sto cazzone metteva il burro ovunque, roba da frustate), aggiungere sale così da vetrificare la bulbacea e quando manca poco alla cottura 1 bustina di zucchero, meglio se di canna (questo è un trucchetto geniale). Fare prendere colore e aggiungere i pomodorini tagliati a metà, salare ancora, 5 minuti a fuoco medio coperto, aggiungere le olive tagliate a rondelline e i capperi, altri 4 minuti come sopra e infine il ciauscolo tagliato a dadini.

3 minuti sempre a fuoco medio, poi spostare il coperchio e far sfiatare. 

Cuocere la pasta al dente, lasciare un po’ d’acqua di cottura (ovvio), saltare col condimento, spolverata di prezzemolo fresco (oppure due cucchiaini di pecorino romano, son due correnti che van bene entrambe) e dopo aver finito il piatto, marocchino freschissimo di amico Said per digerire e poi si va a ballare tutta la notte sciao belo, andiamo qui che c’è amico no paga drink

Cronache di un basso di merda.

Importante disclaimer: se sei finito qui è perché non avevo voglia di perdere tempo a spiegare a voce cosa mi abbia portato a chiedere una determinata cifra per questo strumento che non ho mai sinceramente amato. Visto che però ho le mie ragioni, eccome se ce l’ho, le ho volute scrivere qui, perché vorrei che fosse chiaro quanta merda m’ha fatto mangiare questo strumento del cazzo. Ma andiamo con ordine e INIZIAMO!

All’alba del terzo millennio, stremato dai continui commenti in merito al mio Ibanez Soundgear 5 corde legni pregiatissimi di origine remotissima / elettronica attiva / PU di grandissima qualità (leggasi strumento insipido e assolutamente inadeguato a una sala di registrazione professionale) colgo la palla al balzo dando retta al mio batterista: “Fa’ un salto dal Navini a Castiglion Fiorentino: hanno un G&L L2500 (matr. 7104, attestato firmato addirittura da Phyllis Fender, vedova di), a 5 corde a un ottimo prezzo”. Il negozio di strumenti musicali Navini a Castiglion Fiorentino era (è? Non saprei, ora come ora) un’icona, un’istituzione eccetera, fatto sta che vado e offro in permuta quel ceppo da ardere del mio Ibanez. Fatto l’affare (il prezzo m’era parso stranamente ragionevole per un basso nuovo) me ne vado direttamente dal liutaio (il primo liutaio lo chiameremo A, e non sarà il primo, anzi) a fare le sistemazioni di rito come schermatura, eventuale rettifica e via così. Prima badilata: lo strumento non è nuovo. Intendiamoci, è tenuto benissimo, maniacalmente, ma non è nuovo: la fama del Navini non è stata smentita quindi, ma pace. Da cosa lo scopro? Il liutaio A ha schermato personalmente quello che era il basso dell’amico Roberto Ciucca Tiezzi, storico bassista di Pupo. Roberto ha una collezione pazzesca di bassi e il fatto che non avesse tenuto ‘sto G&L avrebbe dovuto insospettirmi, ma tiremm innanz, anche perché c’è un secondo problema: il truss rod non lavora regolarmente, anzi parrebbe proprio non funzionare. Pace: abbassiamo il ponte all’inverosimile e proviamo a suonarci. Così facendo ci suono per molto tempo, ma alla fine la situazione diventa ingestibile e riporto il basso al liutaio A: grazie ai buoni uffici della moglie del liutaio stesso faccio l’intera stagione con un basso di liuteria fatto proprio del liutaio A in attesa che costui me lo ripari. Il liutaio A era (ed è tuttora famoso) per prendersi tempi deliranti per il proprio lavoro, specialmente quando il cliente gli diceva la frase “Non preoccuparti, non ho fretta”. Dopo oltre un anno riprendo il basso al quale aveva fatto il seguente lavoro: per sbloccare il trussrod aveva tagliato i primi 3 tasti della tastiera e l’aveva in qualche modo sbloccato. Non ricordo nemmeno se pagai l’intervento, dopo oltre un anno, ma ripresi il basso e la situazione mi parve migliorata. Pura suggestione: cambio casa e cambio anche liutaio, visto che A si trasferisce in un’altra regione. A pochi km dalla mia casa precedente c’è un altro liutaio, che per comodità chiamerò B, gran capataz di manici, PU ed effetti che, preso il manico mi dice “Il trussrod non funziona: come vuoi fare?“. Bestemmiando, gli dico se è possibile togliere solo la tastiera salvaguardando il manico (sì, lo so, gli ho fatto fare una stronzata capitale, maledizione, non è vero che il cliente ha sempre ragione, specialmente se è un incompetente totale com’era allora il sottoscritto). B acconsente ed effettua l’operazione, mettendo su mia richiesta anche dei dot più piccoli, in abalone, ordinati addirittura da Wilder. Esteticamente il lavoro è (se visto di fronte) fatto benissimo. Vi ricordate il taglio della tastiera effettuato dal liutaio A per sbloccare eccetera? Il liutaio B, cadendo dalle nubi, mi dice di non aver trovato traccia dell’intervento effettuato. Ottimo, penso io tra me e me, sacramentando. Va bene: pago e (questa frase me la ricorderò finché campo, finché avrò l’Alzheimer e sono convinto che anche quando avrò il cervello in pappa, quando mi diranno la frase che segue tirerò un porco di dimensioni apocalittiche) al momento della consegna il liutaio B mi dice: “Ora hai un superbasso!“. Tutto contento me lo porto via e continuo a suonarci, sempre in maniera estremamente poco agevole, ma mo’ sarà una mia impressione, ti pare che ‘sto manico sia così ingestibile? Sì, lo è: decisamente ingestibile.

Su consiglio di un amico fraterno, scopro un giorno che non devo più fare 50 km per andare dal liutaio, anzi: ce n’ho uno a nemmeno venti minuti da dove abito, ma è merDaviglioso! Ecco, chiameremo questo giovanotto Liutaio C (l’ultimo? Sé, lalléro) al quale porto lo strumento che sto suonando sempre meno visto che il mio PRIMO basso l’ho reso nuovamente operativo con un manico completo di meccaniche, decal, trussrod funzionante e quant’altro (pronto da infilare nel corpo similPrecision del mio primo basso, una cineseria ‘sto manico sicuro, ma che suona da spavento) a soli SETTANTA euro (colpo di culo trovato su Mercatino Musicale, e anche su questo c’è da raccontare i TRE tentativi di invio da parte di SDA che non mi trovava perché abito in campagna tre capanne dopo Tarzan) mentre un set nuovo di DiMarzio DP126 l’ho pagato NOVANTA euro (acquistato tramite quello che diventerà l’ultimo liutaio, ossia D), trasformando un Hondo H83 II in un Fenderstein dal suono sorprendente (ci ho registrato in studio e va ch’è una bellezza).

Bene, andiamo dal liutaio C, facciamo conoscenza, mi sembra una persona seria e professionale nonostante la giovane età e gli espongo il caso: non nascondendo la desolazione mi dice che quel trussrod NON FUNZIONA, al di là del lavoro fatto con la tastiera che ha qualche discutibile pecca che noto solamente dopo, ma l’economia dello strumento non ne ha risentito, ad onor del pero (o anche del Piero). Niente, non si muove, non c’è verso. Avrei voglia di bestemmiare e bestemmio, abbondantemente e senza ritegno alcuno. Trecento euro buttati al vento, per un lavoro perfettamente inutile. Il mio G&L rimane parcheggiato lì, in attesa di tempi migliori. Intanto, ad aumentare il costante flusso di bestemmie palesemente contraddittorie scopro che (sedetevi) se avessi inviato il manico alla G&L me l’avrebbero sostituito gratuitamente perché questo era un problema ricorrente nei G&L statunitensi, ossia il trussrod sottodimensionato. Adesso m’attacco al cazzo e cerco (avessi culo una seconda volta, davéro davéro) di nuovo negli usati se trovo un altro manico G&L Made in USA, tanto ormai lo strumento ha irrimediabilmente perso il suo valore. In Calabria (privato su Ebay, diovolesse) trovo e repente mi faccio inviare quest’altro benedetto manico originale (inspiegabilmente senza meccaniche, ma poco importa, le tolgo dall’altro). Manico montato, meccaniche montate non senza qualche difficoltà (la meccanica del SOL è posizionata in maniera differente rispetto all’altro manico, nulla di irrisolvibile, ma restano ‘sti fori dietro alla paletta, ben coperti ma restano) e NEMMENO QUESTO TRUSSROD FUNZIONA. Lo strumento è a un passo dal falò anche perché va detto, il suono di questo G&L è semplicemente mostruoso: definito, potente, preciso, quanto di meglio non possa avere mai suonato. Le pochissime volte che ho avuto la possibilità di farlo suonare in coppia con il mio Ampeg SVT4 made in USA e la sua brava cassa 4×10 anch’essa Ampeg ho goduto come poche volte.

Carissimo liutaio C, gli do fuoco? Dopo alcuni tira e molla (lo vendo, te lo cedo, lo riprendo, lo metti in vendita, lo riprendo, il tutto inframmezzato dal vaffanculo di rito) altra asportazione di tastiera, il palissandro cede il posto a un ebano nerissimo e impenetrabile, di qualità pazzesca. Stavolta il liutaio C fa uno scasso brutale e ci mette un trussrod che trainerebbe un transatlantico, documentando doviziosamente tutto l’intervento effettuato. Eccezionale, il basso suona comodo e nonostante le corde sbagliate (diametro eccessivo) e ormai vetuste, è persino gestibile. Pago un’altra sassata (quasi quattrocento euro) e mi riprendo questo basso che, in realtà non sto suonando più.

THE END

Ma neanche per il cazzo. Pensavate davvero fosse finita?

Poiché ormai il mio primo strumento è la chitarra acustica e avendo necessità di effettuare ulteriori interventi allo strumento e, visto che il liutaio C è sempre più oberato di lavoro (rischiando di fare la fine del liutaio A, celebre per non dire mai di no, salvo riconsegnarti lo strumento alle calende greche), sempre su consiglio di amico professionista, vengo direzionato da quello che chiamerò, ovviamente, liutaio D. Finora il migliore: onesto e leale, disponibile quando possibile e pronto a dirti di NO se impossibilitato ad operare.
Avendomi fatto un ottimo lavoro sulla chitarra acustica (iniziato, per correttezza, dal liutaio C, un lavoro davvero ben fatto che ha fatto sì che la mia chitarra acustica suonasse e avesse un’action di una comodità mai vista) ho ritenuto opportuno portargli il basso per dare una sistemata, visto che dovevo registrare alcune parti in studio. “Ma i tasti sono storti” se n’uscì il liutaio D. Persino Satana s’era spaventato di fronte a una simile giaculatoria partorita dalla mia bocca: “Ma che cazzo dici? Come: STORTI?!“. I tasti di uno strumento dovrebbero essere ortogonali alla bisettrice della tastiera. Così non è: se uno guarda con attenzione lo strumento di fronte, la cosa si nota, pur non inficiando l’intonazione. Del trussrod non si è nemmeno parlato visto che, a quanto pare l’action non s’è mossa di un millimetro, ma la tentazione e il terrore di vedere se funziona o meno sono più che presenti.
Chiaramente lo strumento giace nella sua bella custodia originale da almeno un anno e mezzo, con la batteria (a mia memoria) ancora collegata. Spero sia una di quelle con il sistema di ritenuta (Duracell o Energizer) altrimenti sarà andato in vacca persino l’impianto elettrico, unica cosa degna di nota di quel basso di merda che è questo G&L L2500 Made in USA matr. 7104.

Racconto di fantasia

Un appunto in agenda, aperitivo al *** alle ore 18. Bravo, un appuntamento segnato, questo sì che significa essere precisi. Il fatto è che non ho segnato con chi avevo ‘st’appuntamento, e quindi? Non un nome, un numero di telefono, il nulla. Solo l’orario. Un po’ poco, no? Preciso ‘sto cazzo. Quindi ci vado lo stesso, ottimo: il posto è uno di quelli dove l’andarci di proposito è detestabile a priori, a voler essere gentili. Piove eccezionalmente che Dio la manda, quindi io mi siedo dentro in un tavolo che s’è preso una sporta d’acqua che mezza basta e la sedia idem, asciugati alla bell’e meglio da una dello staff, col tavolo che, fradicio, profuma d’impregnante e la sedia che mi si sarà tatuata sul culo, disegnando un simpatico motivo sui miei jeans. Piove ancora di più e l’uscita da questo posto decisamente fighetto wannabe (che orribile coppia di lemmi, però funziona, come NON disse Machiavelli, non l’ha mai detto, è una leggenda metropolitana: “Il fine giustifica i mezzi”, un posto degno del mio paesone che m’ospita) sarà un’impresa degna di Noè. Probabilmente sto aspettando ‘sto cazzo, ma transeat: non ho nemmeno un ombrello con me, quindi buon viso a cattivissima sorte.

Stanno per intervistare qualcuno, oh cielo, un VIP, qualcuno senza dubbio importantissimo, me cojoni, e io non ne sapevo nulla, io sono addirittura in sandali, quanta mala creanza. Penso che me la darò a gambe prima che inizi il rito mediatico. Accanto a me due coppie: due amiche (notevoli) che parlano di non so cosa, ché la mia sordità incipiente ovatta tutto e dietro di me due tizi di cui al punto in precedenza. Mi portano una Ribolla Gialla gassata (attenzione, bedabèda bubi, non vinificata chissà come, gassata come certi vini rabbiosi da circolo ACLI) pressoché imbevibile e un pacchetto di patatine da 30 g unte e bisunte, però confezionate che Sua Maestà il Morbo Odierno non transige. Dietro ancora una famigliola con tre (quattro) infanti, di cui uno bestia di Satana che non fa altro che strepitare.

Ha smesso di piovere, dioguardi: me la do a gambe, nonostante l’intervista sia iniziata. L’intervistatrice, un incrocio fra una Lina Sotis e una Barbara Alberti sta torturando un tale che sarà chissà chi (ossia, per esteso, sarà chi te se ‘ncula).

La bestia di Satana, intanto, ancora strepita.

Pago, mi segno la cantina che ha prodotto quel liquame e me la do a gambe, non prima d’aver significato alla gentil operatrice la mia avversione ne’ confronti dell’impotabile frutto della vite, del lavoro dell’uomo, de’ solfiti e dell’anidride carbonica.

Au revoir.