Quando sarò morto magari qualcuno si prenderà la briga persino di leggere questo blog che aggiorno solo ora dopo mesi e mesi di pigrizia, inattività, frenesia legata a Twitter, sicuramente più spassoso, costruttivo e intelligente di quella merda di Facebook, popolato solo da minus habens che blaterano di politica, scie chimiche, complotti e quant’altro gli possa consentire quell’unico e solitario neurone che deve sorbirsi sia le funzioni primarie che tutto il resto oh ma mica posso fa’ tutto io!
Ebbene, sono rientrato a scrivere qui perché mi son visto superare (non ricordo dov’io fossi ché ero assorto ma soprattutto stavo andando particolarmente piano con la mia Zafira) da un vecchio scatanfrone a gasolio visibilmente riverniciato: trattavasi di un vecchio autobus con targa TR di quella che era la vecchia compagnia di autobus che serviva la provincia di Terni con alcune fermate nell’odiata provincia limitrofa (Perugia), ossia l’ATC, che con ASP (quella di Perugia) e LFI (quella della bassa Toscana) serviva la mia zona (vivo tuttora in una zona dove in un quarto d’ora di auto cambi provincia – Terni – o addirittura regione – Siena – e quindi siamo un ideale e simpatico crocevia – ma anche coacervo – di dialetti).
Altro che Setra, MAN, Volvo o altre aziende che producono autobus avveniristici: a’ tempi delle mie scuole superiori io ricordo Renault (un modello si chiamava F1, poi capirete perché mi rimase impresso), Menarini (370 aspirato e 370 Turbo, ricordatevi anche di questo), Tomassini, massì anche i modernissimi (per l’epoca) Volvo B10M, Kässbohrer, Iveco e altri marchi storici di aziende confluite qua e là, fallite o altro. E chi c’era alla guida di questi autobus una volta blu (e non grigio pirla come gli autobus di Umbria Mobilità ora Trenitalia, e chissà come cazzo si chiameranno l’anno prossimo), con cambio manuale e alimentazione diesel? Loro: GLI AUTISTI, ovviamente. Gente d’ogni sorta, d’ogni risma, fenomeni tutti rigorosamente di sesso maschile, ché la parità sarebbe arrivata nel millennio successivo, come se per emanciparsi si debba fare necessariamente un mestiere simile che abbrutirebbe chiunque.
Gli autisti: gli ignoranti, odiosi, invisi, tristi (quelli erano i giornalisti, d’accordo, questa perla la lessi su un Guerin Sportivo nel 1985 e non ricordo chi la scrisse, ma fu memorabile). Non ricordo nessuno di loro che non avesse una tresca, un affaire con qualcuna, madre e moglie, o anche studentessa minorenne (son lontani quei tempi, ora si finirebbe alla gogna, e lo stupro, la condizione della donna, quando c’era una condiscendenza reciproca e una leggerezza che lèvati). Qualche eccezione ci sarà sicuramente stata ma non ne ho davvero memoria e comunque erano da studio, roba che un Sir David Frederick Attenborough qualunque ne farebbe un documentario alla BBC da vincere il Pulitzer in men che non si dica.
Ricordo tutti i nomi (tranne di uno, del quale ricordo solo il cognome, di un altro che ricordo solo l’infinita ignoranza, maleducazione, cafonaggine, roba da infilargli la testa nel cesso colmo di diarrea seduta stante e di un altro ancora con il nome che oggi definiremmo un meme vivente). Erano coloro che ci portavano a scuola e lo facevano ogniuno a suo modo. Da chi iniziare? A caso.
Remo: personaggio d’una simpatia unica, baffetto da poliziottesco anni ’70 (i RayBan completavano il look da commissario di Polizia), pelata, fisico minuto e voglia di fica che scànsate, la buttava sulla simpatia e aveva un discreto successo. Si distingueva sempre per calma e battuta pronte un po’ con tutti. Stile di guida standard, niente di folle o pericoloso. Non ricordo nulla di particolare in merito.
Massimo: ce n’erano due e questo (niente baffi, moro anche lui) non aveva davvero un bel carattere, anzi, proprio col cazzo. Fumino, incazzoso, irascibile, forma fisica nella media, occhiali (insolito, ricordo solo lui) e capello con la riga. Altrettanto affamato ma decisamente meno d’impatto, povero cocco. Memorabile un dirottamento da lui stesso operato al parcheggio degli autobus a Pian di Massiano, Perugia con venti studenti che intonavano i cori della A.S. Roma (lo facevamo facevano spesso) e con lui paonazzo di rabbia che aveva chiamato la Polizia Stradale. Ora sarebbero tutti in carcere o da Barbara d’Urso, e non so cosa possa essere peggio.
Massimo: altro Massimo, altra corsa. Parzialmente calvo, baffo impomatato da sottufficiale prussiano, hipster ante litteram, occhi azzurri e clamorosamente rosso, scozzese a voler dire. Massimo era un tipo singolare: lo ricordo sposato con una brasiliana e due figlie piccoline delle quali le signore delle prime file dell’autobus parlavano estasiate. Guida regolare anche lui.
Italo: fratello di Bruno (vedi), capello ordinatissimo, baffo sottile e condotta di guida abbastanza regolare. Un filo più spedito dei precedenti, sicuramente ricordato con piacere dal popolo dell’autobus come persona assai a modo.
Bruno: fratello di Italo (ovvio), un filo più tarchiato, baffo importante e burbero a sufficienza. Una mattina che limonavo allegramente con la mia fidanzatina dell’epoca tuonò dal posto guida: “Togli quei piedi dal sedile”. Fui un fulmine. “ANCHE TE” rivolto a una graziosa ragazzina sul fondo che stava facendo la stessa cosa con il suo moroso. La ragazzina divenne paonazza. Ce credo: ERA SUA FIGLIA. A lui riconosco di aver avuto per le mani una meraviglia di ragazza, mio sogno erotico, pornografico, Pornhub per decenni. Bravo Bruno.
Alberto: qui andiamo su uno stand up comedian mancato, un esilarante Alberto con una guida champagne che intratteneva le varie donnine (da noi le donnine non hanno nulla di licenzioso, ma sono solamente le signore di una certa età) con battutacce grevi che strappavano risate e Uh Alberto, che matto e via così. Agricoltore per passione era soprannominato Pollarolo (colui che alleva i polli). Quando mia madre gli chiese qual era l’ultima fermata lui rispose: “Da Peppino, signora”. Mia madre non colse: “Peppino chi?”, e Alberto: “Garibaldi!” parlando della statua di fronte al capolinea. Riuscì a far ridere anche mia madre. Grande Alberto.
E adesso si fa sul serio, ma seriamente sul serio, ché quando bisogna essere seri, bisogna veramente esserlo.
Mario: Santa Madonna, se di cognome fai Rossi e ti chiami Mario, cosa ti avrà mai riservato il destino? Quando salivamo sull’autobus il “Oh no” era unanime: sapevamo che avremmo dovuto firmare e far firmare il ritardo al preside o chi ne avrebbe fatto le veci. Va’ a spiegare che quella mattina Mario era di turno, ma chi è questo Mario? Basso come me, naso aquilino, faccia da Mario, un qualunque Mario ordinario. E andava piano, Mario, Santa Madonna, per carità: anche il tachigrafo con lui s’addormentava, il sonno del giusto, porèllo. E noi andavamo verso il nostro destino, sì, ma lentamente.
B.: non ricordo il nome ma non posso mettere il cognome. Guidare di merda è un talento col quale si nasce: d’accordo, si può peggiorare ma quando sei un disadattato di tuo tutto scorre fluentemente. Intendiamoci, B. non guidava male: guidava peggio. Distratto, gnitànto andava lungo sulle fermate ma soprattutto, cristomadonna, aveva un difetto che avrebbe ammazzato la pazienza di Giobbe e la fortezza del vecchio Eleazaro: questo qui guidava col piede sull’acceleratore, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, poi lo toglieva, poi riaffondava il piede, IL TUTTO PER OLTRE UN’ORA DI TRAGITTO. Non so quanta gente sia finita in terapia.
Appendice su B. (questa mi è stata raccontata e non garantisco): B. alla guida che sta pensando a Kant, o al prodotto interno lordo del Suriname, o alla fica, o al Perugia calcio, chissà a cosa, mentre finisce contromano e un grosso TIR gli suona e lampeggia con l’autista che gli fa il più italiano dei gesti ossia le cinque dita unite verso l’alto a formare un arancino e con mossa di polso all’unisono ma che cazzo fai?! B. allargò le braccia rientrando in corsia, è la vita, peccato che non ricordava di stare a bordo della sua Fiat 500 e non di un autobus. Sic transit (Ford) gloria mvndi.
Fernando: la notte di Natale noi aspettavamo i giocattoli trepidanti, convinti che sì, avevamo fatto i discoli, ma dopotutto vuoi che Babbo Natale non ti porti quella moto, quell’automobilina, questo o quel balocco? Fernando quella notte non chiuse occhio: l’ASP aveva acquistato due Renault GranTurismo F1, sovralimentati, bellissimi, uno blu e uno addirittura bianco, come nemmeno Don Johnson in Miami Vice e la mattina presto sarebbe andato lui personalmente a ritirare quello blu e a farlo entrare in servizio di linea. Era lui il primo a guidare i mezzi nuovi, lo ius primæ noctis gli spettava di diritto, o anche no, ma non aveva importanza. Staccava dal lavoro e risaliva sul camion: non era lavoro, no, era una stramaledetta passione. Fernando era così, una brava persona, ma come cantava Francesco Baccini e la mia auto è quasi nuova, io viaggio solo con il TIR.
L’anonimo: giuro sulla testa di ‘sto coglione che non ricordo il suo nome. Solo tre cose: saltava le fermate se a suo modo di vedere l’autobus era troppo pieno, non rallentava nelle strettoie (ricordo io personalmente gli specchietti del suo e dell’altro autobus andare in frantumi perché non rallenti tu? Io col cazzo che rallento, bastardo, tanto pagavamo noi utenti) ma (la migliore) non faceva entrare nessuno nella propria corsia. Ricordo che rifilò una sportellata in zona stazione a un’auto che non riuscì a sorpassarlo. Una bestia: non ricordo come cazzo avesse potuto diventare autista, ‘sto pericoloso stronzo.
Gosti: siamo sul podio, signore e signori, non ce n’è per nessuno. E quando dico nessuno intendo veramente NESSUNO. Qui non parliamo di un autista qualunque di un mezzo qualunque, NO: qui parliamo di un pilota. Gosti con l’autobus era Daisuke Umon alla guida di Grendizer, Tetsuya Tsurugi alla guida di Mazinger ma detto così è riduttivo. Lui era Hiroshi, Hiroshi Shiba e l’autobus era il Jeeg: una volta lanciati i componenti non c’era nulla che poteva sconfiggerlo. Memorabile una partenza dal paese alle 07:20: per arrivare a Perugia centro, in auto e con poco traffico si poteva sperare di arrivare cinque alle otto. Gosti parcheggiò al capolinea alle 07:50, aprendo le porte. Ci fu il boato generale, l’applauso, l’apoteosi: non aveva saltato un cazzo di fermata e non aveva lasciato a piedi nessuno. Era il nostro Robert Neville, ERA LEGGENDA.
Appendice su G. (questa mi è stata raccontata e non garantisco): festa de L’Unità, Modena, Bologna, non ricordo. Gosti era alla guida del Menarini 370 Turbo (e questo me lo ricordo io) targato PG 504007 e in autostrada toccò i 150 km/h. I cori da stadio nell’autobus coprivano il rombo furioso del motore che cantava come un Pavarotti in stato di grazia: il resto è storia.